Sicilia, va commissariata subito

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Lo dimostra l’assessore Bianchi che ha gettato la spugna
Meglio tardi che mai, caro Pietrangelo Buttafuoco. Ivan Lo Bello, imprenditore e vice presidente di Confindustria, ha proposto il commissariamento dell’isola nel luglio 2012. Gli strilli di Lombardo arrivarono al cielo. Appena eletto, anche Crocetta disse che c’era una strategia occulta in tal senso.

Ora è chiaro che non è una manovra contro questo o quel governo della Assemblea Regionale. Né si possono dare tutte le responsabilità all’ultimo arrivato, ad una maggioranza che è apparsa ancora più curiosa e volubile di quella nazionale. Chissenefrega di chi è la colpa. È un dato di fatto: i conti sono fuori controllo da tempo. Con tutta la buona volontà dell’assessore Bianchi, a dicembre si è arrivati alla approvazione del bilancio per il rotto della cuffia, sfiorando l’esercizio provvisorio.

Già allora la relazione della Corte dei Conti non lasciava adito a dubbi: un debito incolmabile, un servizio dello stesso insostenibile, una stretta creditizia che soffoca i fornitori e mette in pericolo i servizi fondamentali. Meno gli eletti di tutte le confessioni, dirigenti, gregari e dipendenti di tutte le partecipate, indebitate e sovvenzionate, che fanno di tutto meno che gli interessi dei siciliani. Tre giorni fa l’assessore Luca Bianchi si è dimesso irrevocabilmente. Signori, il problema di cui parlerebbero oggi a Benigni non è il traffico né la mafia: ma la maledetta «Sicilia delle autonomie», che costa ai siciliani più delle criminalità, che impedisce ogni funzionalità ed attrattiva per gli investitori nella Regione più bella d’Italia.

Il commissariamento, oltreché un dovere verso l’isola e l’Italia, è la sola salvezza dei siciliani. Un governo «locale» da solo non ce la può fare insieme ad «autorifomare» un «quasi Stato» e a sopravvivere, chiedendo un sostegno alla nazione in epoca di restrizioni. Nulla lascia presagire un cambiamento di rotta. La Sicilia è in debito d’aria per via di una classe dirigente che, a causa del suo stesso status speciale, intreccia autonomismo e vittimismo, orgoglio e sudditanza, contestazione e conservazione. No muos, No oil, No ponte. Intanto si scialacquava a destra e sinistra coi corsi di formazione ed i fondi europei, che, in onore alla mano larga del seminatore e alla ideologia dei burocrati europei, si perdevano in mille rivoli inutili, strade e piazzette intitolate agli eroi antimafia, invece di essere utilizzati per l’infrastruttura industriale capace di riavviare la crescita.

Le partecipate fiaccavano nell’economia territoriale, la mala pianta dei politicanti manager, invece di consentire lo sviluppo. Le aree di eccellenza disperse e sacrificate al peggio dello statalismo localista. Nella patria del Gattopardo, i partiti si sono persi in mille segmenti correntizi di movimenti, personalismi, concorrenze. Le reazioni orgogliose al giornalismo a tesi si tenevano la mano con la voglia di tenere tutto fermo il più a lungo possibile. Nessuna prevenzione razzista: la Sicilia è solo l’Italia moltiplicata e concentrata, se non si fa nulla. Tante Regioni, infatti, sono sull’orlo della stessa bancarotta senza che questo emerga. I nodi stanno venendo al pettine: la politica stessa delle autonomie con le Regioni al centro è figlia di una altra epoca. E quella delle Regioni a statuto speciale a maggior ragione.

Troppo grandi per essere vicine ai cittadini, troppo piccole per la programmazione economica, troppo potenti per legiferare in ambiti ormai globali, troppo deboli per controllare gli effetti della spesa. Le Regioni sono giganteschi ostacoli allo sviluppo. Allora non c’è tempo da perdere e la Sicilia, soprattutto, ha bisogno di un regime straordinario per essere salvata. Ci vuole un commissario, ma non un ragioniere come Cottarelli. Ci vuole un politico determinato con pieni poteri. Che non abbia nulla da perdere. Anzi che abbia da perdere solo se non cambia le cose. Le cose da fare? Stanno scritte in migliaia di report e studi, basta fare.
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