I Comuni e il libero cassonetto fucsia, gialli e blu ma non green

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Meglio fucsia o blu navy? Nell’Italia delle discariche pirata e dei roghi notturni di spazzatura sembra essere questa la domanda attorno a cui si arrovellano ammini-stratori locali quando pensano ai rifiuti: la raccolta differenziata può restare al minimo, dimezzata rispetto agli obblighi di legge, ma i cassonetti devono essere eleganti, di un colore che riveli la personalità dei dirigenti delle aziende di gestione. Vuoti ma signorili. Non è un’innocente stravaganza ma uno spreco. Lo ha calcolato un imprenditore che ha costruito il suo business attorno alla realizzazione di cassonetti di plastica riciclata partendo dal presupposto, ingenuamente logico, che risparmiare materia prima e energia ottenendo così prodotti a prezzo competitivo sia premiante. «Io costruisco cassonetti in plastica riciclata che, a parità di prestazioni, pesano il 25% in meno degli altri e dunque costano meno in termini energetici, consentono di risparmiare una certa quantità di idrocarburi e rendono più facile il lavoro di sollevamento da parte dei mezzi di raccolta», racconta Antonio Foresti, l’amministratore delegato di Jcoplastic che ha costruito due stabilimenti, a Battipaglia e a Potenza, dando lavoro a 160 persone. «Ma mi trovo estromesso da moltissime gare perché i bandi escludono i prodotti innovativi: non definiscono i requisiti in termini di resistenza dei materiali, sono basati sul vecchio concetto ‘pesante è meglio’ e impongono una gamma infinita di colori,

rosa compreso ». Già, perché i contenitori per l’umido sono marroni in una città, verdi in un’altra e rossi in una terza. E lo stesso vale per tutti gli altri materiali: vetro, plastica, carta, metalli. L’idea di trovare un accordo tra le città per definire tinte uguali per tutti e quindi facilmente associabili ai singoli materiali è stata respinta come una pericolosa ingerenza nella libertà d’impresa. Ottenendo, grazie a questa incapacità di coordinamento, tre risultati. Il primo è che si rende difficile la vita a chi si sposta e deve continuamente fare attenzione al contenitore in cui butta la sua bottiglia di birra e il giornale perché cambia colore a distanza di pochi chilometri. Il secondo è che si spreca denaro della collettività. Il terzo è che si penalizzano proprio gli imprenditori green. «Una frammentazione di colori così vasta fa mancare la massa critica da riciclare per confezionare cassonetti gialli, rossi o verdi », continua Foresti. «Dunque bisogna mischiare e rendere omogenea la tinta, il che significa produrre plastica molto scura che non corrisponde ai requisiti richiesti. Con regole cromatiche uguali in tutta Italia potrei ottenere, a regime, un risparmio del 20% che si trasferirebbe in una riduzione del prezzo». La Jcoplastic fattura 50 milioni di euro in Italia e altrettanti all’estero (Spagna, Francia, Austria, Grecia, Turchia, Argentina). Ma la quota italiana cala e la tentazione di migrare verso paesi in cui il risparmio non sia penalizzato è forte. «Per me il costo non sono i miei dipendenti, che hanno una grande capacità produttiva e si guadagnano il loro stipendio fino all’ultimo euro: il costo inaccettabile è quello della burocrazia e nessuno sembra preoccuparsene», conclude Foresti. Eppure quando il miracolo della conversione burocratica si compie i risultati arrivano. Anche nel campo della plastica dove dopo anni di freno è passata la legge sugli shopper biodegradabili. Assobioplastiche ha certificato una secca diminuzione del numero degli shopper: meno 20% nel 2011. Significa 30 mila tonnellate risparmiate: da 145 mila a 115 mila tonnellate. A cui bisogna sommare la crescita dei sacchetti in plastica biodegradabile che ha permesso di evitare l’emissione di 180 mila tonnellate di anidride carbonica nell’arco dell’anno. «In questo modo – spiega Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente – l’Italia ha potuto da una parte risolvere il problema del poco invidiabile record di consumo europeo di sacchetti e dall’altra innescare la riconversione di uno dei settori manifatturieri più inquinanti, la petrolchimica, verso filiere innovative e verdi. Un risultato reso possibile da un cambiamento di abitudine piccolo ma significativo: utilizzare una sporta della spesa o uno shopper già acquistato in precedenza». «E’ una buona notizia che mostra come, tolti gli ostacoli burocratici, interi settori dell’economia italiana possono riprendere a correre aggiunge il senatore del Pd Francesco Ferrante – Secondo uno studio realizzato da Plastic Consult, il comparto dei bioshopper ha grandi margini di ampliamento. A patto di evitare gli allarmi propagandati ad arte dalle aziende che hanno tentato di produrre dei surrogati di bio shopper utilizzando additivi in maniera fraudolenta. Il tentativo è stato smascherato e la produzione messa fuori legge: ora queste aziende e i 500 lavoratori coinvolti possono essere riconvertiti alla produzione di bioshopper in regola». Qui sopra, Antonio Foresti, ad di Jcoplastic che ha costruito due stabilimenti a Battipaglia e a Potenza, dando lavoro a 160 persone. I suoi cassonetti di plastica riciclata pesano il 25% in meno

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